Avvertenze per l'iscrizione all'Albo

La domanda di iscrizione all’Albo degli Psicologi e le risultanze del casellario giudiziale del richiedente, ovvero: l’obbligo di verità nelle comunicazioni all’Ordine degli psicologi

a cura dell'avvocato Francesco Paolo Colliva



Il presente articolo, come spesso capita per le iniziative di natura legale, viene redatto innanzitutto per risolvere (o per prevenire) un problema che, negli ultimi tempi, si è manifestato con preoccupante frequenza: l'elevato numero di “errori” che vengono commessi nell'ambito delle comunicazioni (obbligatorie per legge, per lo più) rivolte all'Ordine degli Psicologi dell'Emilia-Romagna.
Questo problema si manifesta soprattutto con riferimento alle domande di iscrizione all'Ordine, nel corpo del cui modulo il richiedente l'iscrizione deve attestare alcuni stati o qualità personali avendo l'obbligo di dire la verità; se viceversa dichiara cose non vere commette un reato (di falso), che l'Ordine ha l'obbligo di denunziare all'autorità giudiziaria.
La materia è davvero corposa, e tocca alcuni temi cardine del sistema penale italiano; la affronterò pertanto sinteticamente, e per punti.

I – NATURA DELL'ORDINE DEGLI PSICOLOGI
Il primo passo da affrontare riguarda la natura degli Ordini professionali, e quindi, di conseguenza, dell'Ordine degli psicologi. Infatti non è secondario stabilire se gli stessi siano soggetti pubblici o viceversa privati, derivando dalla diversa qualifica conseguenze importantissime rispetto al tema che oggi affrontiamo.
Orbene, è pacifico che gli Ordini professionali sono enti pubblici, contribuendo a perseguire i fini ritenuti meritevoli di tutela dall'ordinamento giuridico.
Tale qualificazione ha effetti importantissimi sulla disciplina cui è sottoposto l'Ente, sia circa i suoi rappresentanti e dipendenti, circa i documenti redatti nell'ambito di competenza dell'Ente, ed infine circa le dichiarazioni che al predetto Ente vengano eventualmente rilasciate da soggetti esterni.

II – ATTESTAZIONI, COMUNICAZIONI E DICHIARAZIONI RESE ALL'ORDINE
Per quanto riguarda tutti gli atti dichiarativi che vengono presentati all'Ordine da iscritti e non iscritti, e che spesso riguardano dati anagrafici o altre qualità personali, occorre subito chiarire che, qualora siano, anche in parte, falsi possono esporre il dichiarante a conseguenze di una certa gravità.
Infatti, essendo l'Ordine -come detto- Ente pubblico, ad esso (o meglio, alle comunicazioni allo stesso destinate) si applica il D.P.R. 445/2000, che prevede l'obbligo di autocertificazione di numerose qualità e stati, e che assoggetta le dichiarazioni false alla stessa disciplina degli atti pubblici tout court. Da ciò consegue la automatica applicazione dell'art. 483 c.p., che recita: “Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni”.
Insomma, chiunque dichiari il falso in una comunicazione “ufficiale” all'Ordine degli psicologi risponde di un reato, salvo che il falso riguardi circostanze del tutto marginali ed insignificanti. Ho ribadito volentieri il concetto, anche a costo di apparire ripetitivo, sia per la gravità delle conseguenze a cui si può esporre il dichiarante, sia perché tale evenienza è molto più frequente di quanto non si pensi, e riguarda soprattutto la domanda di iscrizione all'Ordine, che infatti tratteremo specificatamente di seguito.

III – LA DOMANDA DI ISCRIZIONE
Chiunque abbia compilato (o quantomeno visionato) un modulo per la domanda di iscrizione all'Ordine sa che il richiedente l'iscrizione deve effettuare una serie di dichiarazioni, tutte “sotto la propria responsabilità e consapevole delle sanzioni penali previste dall'Art. 76 del D.P.R. 445 del 28/12/2000 per le ipotesi di falsità in atti e dichiarazioni mendaci qui indicate”.
Nel novero di tali affermazioni si trova la seguente: “di non avere riportato condanne penali passate in giudicato per delitti che comportino l'interdizione dalla professione e di non essere stato condannato con sentenza passata in giudicato, salvo riabilitazione, a pena detentiva non inferiore a due anni per reato non colposo”.
Orbene, se la seconda delle affermazioni (quella relativa alla condanna a due anni, per intenderci) non dovrebbe dar luogo a particolari problemi interpretativi, ben potendo chiunque, anche il più inesperto di materie giuridiche, ricordare se è stato condannato alla pena di due anni di reclusione, ben più complessa risulta la disamina della prima affermazione, dipendendo direttamente la ricorrenza delle circostanze da numerose valutazioni, tutte dotate di elevato tasso tecnico nell'ambito del diritto penale, e tutte richiedenti una conoscenza non superficiale della materia.
Pertanto, premettendo fin d'ora che, nel dubbio, è molto meglio rivolgersi ad un soggetto esperto per avere una risposta davvero tranquillizzante, effettuerò ora una breve carrellata delle ipotesi e degli istituti, nel tentativo di chiarire il più possibile la questione.

IV – L'ART. 7 LETT B) L. 56/89 ED IL CERTIFICATO DEL CASELLARIO GIUDIZIALE
La formula sopra riportata ricalca fedelmente quanto previsto dall'art. 7, lett. b), l. 56/89 (ordinamento della professione di psicologo), che appunto parla di “condanne penali passate in giudicato per delitti che comportino l'interdizione dalla professione”.
La formulazione della norma presenta alcuni problemi interpretativi e fa sorgere almeno due quesiti, entrambi delicati: cosa si intenda per “condanne penali passate in giudicato” e quali siano i “delitti che comportino l'interdizione dalla professione”.
Alla prima domanda occorre dare una risposta necessariamente ampia: sono condanne i provvedimenti del giudice penale comminatori di pena, ed emessi a seguito di un procedimento o di un processo; fra essi vi sono le sentenze ed i decreti penali di condanna.
Inoltre, per espressa previsione dell'art. 445 del codice di procedura penale, le sentenze di “patteggiamento” (più precisamente: applicazione della pena su richiesta) debbono essere ricomprese nel novero delle “condanne penali passate in giudicato” ai sensi dell'art. 7, lett. b).
Sono poi “passate in giudicato” tutte le decisioni non più appellabili (o diversamente impugnabili), e quindi “irrevocabili” o “definitive”.
Inoltre, anche a seguito di alcune pronunzie giurisdizionali ottenute dall'Ordine dell'Emilia-Romagna, pare sufficientemente pacifico che l'avvenuta riabilitazione non abbia alcun effetto sullo status di condannato, riguardando solo gli effetti penali della condanna, e non anche il fatto storico della condanna in sé, già di per sé ostativo all'iscrizione.
Ovvero, e più chiaramente: se un soggetto ha riportato una condanna per reati che comportino l'interdizione dalla professione, il fatto di avere ottenuto la riabilitazione (o un provvedimento equipollente, come nel caso del ”patteggiamento”) non ha alcun rilievo, rimanendo il soggetto comunque “condannato”, almeno ai limitati fini dell'art. 7.
A questo punto è necessaria un'altra precisazione, importantissima: le condanne di cui sopra molto spesso non vengono riportate nel certificato del casellario giudiziale (c.d. fedina penale), perché molto spesso è la sentenza (o decreto penale) a prevedere (ex lege o per pronunzia giudiziale) la “non menzione” di quella condanna nel certificato.
Esistono infatti due “versioni” del certificato del casellario giudiziale: l'una, per così dire epurata e che si può definire “ad uso dei privati”, nella quale molte condanne non risultano, e l'altra, accessibile solo ad alcuni soggetti (fra i quali l'Autorità Giudiziaria e, con determinate modalità, la Pubblica Amministrazione) che comprende tutte le condanne comminate ad una persona.
Tale situazione di fatto e di diritto, concepita per la tutela del condannato (perché a volte il risultare condannati può rivelarsi pregiudizievole, ad esempio in ambito lavorativo), rischia, in casi come quello della domanda di iscrizione all’Ordine degli Psicologi, di volgersi invece a suo danno; può infatti capitare che alcuno chieda il proprio certificato del casellario giudiziale e, vistolo negativo, ritenga (e dichiari all’Ordine) di non essere stato condannato.
In casi come questo, la presenza del certificato negativo non esimerà il dichiarante dalla responsabilità per falso, a meno che egli non dimostri di non essere a conoscenza della condanna ricevuta.
Occorrerà quindi particolare prudenza e diligenza nel ricostruire la propria vicenda giudiziaria passata, eventualmente rivolgendosi, lo si ribadisce, ad un soggetto esperto per chiarire i dubbi più spinosi.

V – LE CONDANNE PER REATI CHE COMPORTANO LA SOSPENSIONE DALLA
PROFESSIONE
Nondimeno, non tutti i delitti implicano l'applicazione dell'art. 7, e nemmeno i più gravi o efferati. Si apre quindi un'ulteriore problematica interpretativa, incentrata sulla definizione di “interdizione dalla professione” e sulla sua applicabilità.
Per “interdizione dalla professione” si intende una pena accessoria, disciplinata dal codice penale agli artt. 30 e 31. Quello che più rileva ai nostri fini è l'art. 31 c.p., che statuisce: “Ogni condanna per delitti commessi con l'abuso dei poteri, o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, o ad un pubblico servizio (...) ovvero con l'abuso di una professione, arte, industria o di un commercio o mestiere, o con la violazione dei doveri a essi inerenti, importa l'interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione, arte, industria, o dal commercio o mestiere”.
Per tentare un riassunto, quindi, si può dire che ogni volta che il reato venga compiuto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad un ufficio pubblico o ad una determinata professione si rientra nell'ambito dell'art. 31 c.p., con conseguente applicazione dell'art. 7 lett b) l. 56/89.
Si badi: non è affatto necessario che la sanzione accessoria sia stata concretamente irrogata, essendo sufficiente la condanna per un reato che astrattamente tale sanzione comporta. Infine, per tentare una sommaria elencazione dei reati che implicano l'interdizione, senza alcuna pretesa di esaustività, si possono citare sia i reati dei pubblici ufficiali (ad es. abuso d'ufficio), sia il “classico” abusivo esercizio di una professione, sia la bancarotta fraudolenta (commessa con violazione dei doveri inerenti la professione di imprenditore); nondimeno l'elenco giunge a ricomprendere anche reati “comuni”, purché commessi con abuso di qualifica o di posizione (si pensi solo alla violenza sessuale commessa dal tutore o dall'educatore).

VI - L'OBBLIGO DI DENUNZIA
Occorre infine chiarire l'ultimo aspetto, relativo all'atteggiamento che l'Ordine tiene nel caso sia destinatario di una dichiarazione falsa.
Ho già detto che gli Ordini professionali sono enti pubblici. Da ciò consegue che tutti i soggetti in rapporto con l'Ente (sia rapporto “organico”, come il Presidente e tutti i membri del Consiglio, sia rapporto “di servizio”, come i dipendenti) sono pubblici ufficiali, o comunque incaricati di pubblico servizio.
Non è il caso di attardarsi qui a delineare la distinzione sopra richiamata, che pur ha qualche conseguenza per il diritto penale, basterà invece aggiungere che, in quanto pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, i soggetti di cui sopra sono portatori di un obbligo di denunzia alla Autorità giudiziaria di tutti i reati (procedibili d'ufficio) dei quali vengano a conoscenza “nell'esercizio o a causa” delle proprie funzioni.
Tale obbligo è sanzionato addirittura penalmente, il che significa che se i soggetti di cui sopra non esercitato il proprio dovere di denunziare quei fatti, saranno a loro volta penalmente perseguibili per il solo fatto dell'omissione.
Da ciò ovviamente (oltre che da doverosa diligenza istituzionale) deriva quindi l'inflessibilità dell'Ordine nel segnalare e nel perseguire tutte le dichiarazioni false da chiunque ed in qualunque modo ricevute.